News ITACaso Apple-Fbi: può accadere anche in Italia?

di Ilaria Di Majo

Forse è già accaduto. Proprio in questi giorni, nel processo che vede imputato Alexander Boettcher, accusato di una duplice aggressione con l’acido ai danni degli ex della sua amante, un altro I-Phone 5, quello di Boettcher appunto, contenente dati fondamentali per la ricostruzione delle indagini, è al centro di un’ indagine.

A differenza del caso di San Bernardino, tuttavia, è stato già possibile accedere ai contenuti del cellulare pur non disponendo né del codice pin, che l’imputato ha mai voluto comunicare, né del supporto di Apple, perché sul dispositivo era installato un sistema operativo iOS8, (mentre quello della caso americano è la versione superiore, un iOS9), meno aggiornato e quindi “facilmente” accessibile. Il consulente del Tribunale di Milano si è infatti rivolto ad una società israeliana che ha elaborato un software in grado di sbloccare la protezione creata da Apple.

Oltreoceano, invece, il caso vede l’ Fbi, e la Corte Federale di Los Angeles, “con le mani legate”, dopo il rifiuto dell’Amministratore Delegato di Apple di collaborare con gli inquirenti che chiedevano alla Società di realizzare un software in grado di decriptare l’I-Phone 5 dell’attentatore. A sostegno del rifiuto di collaborare con le autorità americane vi sarebbero ragioni legate alla volontà, da parte di Apple, supportata dalla maggior parte degli esponenti del mondo tecnologico, di non voler originare negli utenti sfiducia nella sicurezza dei suoi prodotti e di non voler creare un precedente devastante per la protezione della privacy degli utenti.  Posizione sostenuta anche dall’alto commissario Onu per i diritti umani, Zeid Ra’ad Al Hussein, il quale ha ribadito che l’ordinanza del giudice statunitense “rischierebbe di aprire un vaso di Pandora”.

A fondamento dell’ordinanza, il Giudice Federale, destando molte critiche, ha invocato il plurisecolare All Writs Act del 1789, che permette ai giudici di imporre ordini su temi non coperti da specifiche leggi, al verificarsi di quattro simultanee condizioni: l’assenza di rimedi alternativi, l’indipendenza giurisdizionale, l’indispensabilità dell’azione richiesta rispetto al caso da risolvere ed il rispetto delle altre leggi.

Il dibattito che si è scatenato è incentrato sul rapporto tra privacy, libertà e sicurezza e le riflessioni in tale contesto sono innumerevoli. Può la sicurezza costituire di per sé una limitazione della libertà personale? Spetta alle aziende o agli Stati tutelare la nostra privacy? Può un soggetto privato, la Apple appunto, stabilire cosa è giusto rivelare e cosa no alle autorità, anche in presenza di un ordine giudiziario?

Negli Stati Uniti d’America, il quadro normativo è frammentato ed incompleto e necessita, ad oggi, di un coinvolgimento del Congresso. Il Governo USA porta avanti da decenni ormai la richiesta di poter accedere a sistemi informatici come mostrato dal famoso caso Snowden, il quale ha rivelato i costanti tentativi di accesso ai flussi dei dati dei cittadini da parte del Governo provocando, al contrario, un inasprimento delle misure di protezione da parte delle aziende tecnologiche. Il Communications Assistance for Law Enforcement Act, inoltre, che norma i rapporti di collaborazione tra lo stato federale e le aziende delle telecomunicazioni, non è stato mai aggiornato per comprendere anche le aziende che offrono servizi su Internet.

A livello europeo, come ben noto, il diritto alla riservatezza (c.d. privacy) ha uno specifico riconoscimento nell’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo  ma manca un sistema di garanzie che renda compatibili le necessarie misure della limitazione della libertà dei singoli con il mantenimento di uno Stato democratico contro ogni possibile abuso o ingerenza.

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