News ITASi può dare del puttaniere a un puttaniere? Risponde la Cassazione

di Alessia Placchi

Una sottile linea di demarcazione separa il reato di diffamazione e l’esercizio del diritto di critica. Ne sa qualcosa la Suprema Corte di Cassazione che di recente si è cimentata nell’analizzare ed interpretare questa apparentemente banale sottigliezza. Pomo della discordia, nel caso di specie, è stato l’appello di “puttaniere” rivolto dall’imputata all’ex marito, del quale aveva scoperto una convivenza more uxorio, già oggetto di chiacchiere all’interno della propria cerchia famigliare. Il commento era stato espresso dall’imputata alla presenza del figlio che si era recato con la fidanzata a farle visita, nel tentativo, secondo la tesi difensiva, di spiegare al figlio le proprie ragioni in merito alla separazione. Nel corso dei primi due gradi di giudizio, il Tribunale di Teramo aveva accolto il reato di diffamazione e la donna era stata condannata al pagamento di una multa e al risarcimento del danno; la Quinta Sezione Penale della Cassazione, con sentenza del  24 giugno 2016, ha invece ribaltato completamente gli esiti della vicenda.

Prima di procedere all’esposizione delle motivazioni in diritto avanzate dalla Suprema Corte, appare opportuno chiarire i concetti di diffamazione, da un lato, e di diritto di critica, dall’altro.

Ai sensi dell’art. 595 c.p. commette il reato di diffamazione chiunque, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione. Gli elementi costitutivi della diffamazione sono tradizionalmente individuati nell’offesa all’onore o al decoro altrui, nella comunicazione con più persone  (anche se non contestuale e non compresenti a livello spaziale) e nel fatto che la persona offesa non sia presente o, almeno, che non sia stata in grado di percepire l’offesa.

Il diritto di critica, che trova fondamento nei principi costituzionali di libertà d’espressione e di manifestazione del pensiero (art. 21 Costituzione), si concretizza nell’espressione di un giudizio o di un’opinione che, come tale, non può essere rigorosamente obiettiva, ma soggiace ugualmente al limite della rilevanza sociale, della correttezza delle espressioni usate e della continenza, il che significa che la critica non deve ridursi a mere offese “gratuite”, e non deve scadere nell’uso di espressioni inutilmente volgari o umilianti o dileggianti.

Nel caso di specie, non possiamo non notare come il giudizio dato dall’imputata all’ex marito, per quanto negativo, corrispondesse parzialmente al vero poiché l’ex coniuge intratteneva ormai da tempo una relazione more uxorio “…in violazione delle regole sulle quali si regge la convivenza coniugale…”, come sostenuto dall’avvocato della donna, e come il termine usato fosse funzionale al miglior raggiungimento dello scopo, ovvero rendere edotto il figlio dell’indole goliardica e frivola del padre.

In questo senso il limite al diritto di critica è esimente del delitto di diffamazione ed è su questo punto, ovvero sul requisito fondamentale della continenza verbale, che si incardina il giudizio della Suprema Corte. Quest’ultima ha, infatti, sottolineato come “…solo le espressioni che trasmodino in un’incontrollata espressione verbale del soggetto criticato e si concretizzino nell’utilizzo di termini gravemente infamanti e inutilmente umilianti superano il limite della continenza…” (Sez. 5, Sentenza n. 29730 del 4/5/2010). La Corte ha altresì affermato che, al fine di verificare il contenuto diffamatorio di un’espressione, il giudice deve svolgere un’indagine del contesto storico e culturale in cui essa è stata pronunciata: perché il valore o il disvalore di una definizione, in sé considerata, muta a seconda dei luoghi e dei tempi.

La Corte di Cassazione ha quindi rimesso il giudizio al Tribunale di Teramo, chiamato a un nuovo esame sulla base delle osservazioni della Corte e, in particolare, sull’assenza di argomentazione e sul vizio di motivazione del giudice di merito riguardo al mancato riconoscimento dell’esercizio del diritto di critica e, quindi, alla correlata violazione di legge.

 

 

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