News ITAPratiche commerciali sleali nei contratti coi consumatori

di Alessia Placchi

E’ senza precedenti la decisione della Corte di Giustizia Europea del 16 aprile 2015 sull’interpretazione della Direttiva 2005/29/CE relativa alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori.

La domanda pregiudiziale che ha fatto scattare l’intervento della Corte è stata presentata nell’ambito di una controversia tra l’Autorità Ungherese per la Tutela dei Consumatori (Nemzeti Fogyasztóvédelmi Hatóság) e il provider di servizi televisivi ungherese UPC Magyarország.

La decisione europea ha di fatto ribaltato l’interpretazione data dalla Corte di Budapest, la quale, adita dall’UPC, aveva escluso la violazione dell’obbligo di diligenza professionale, qualora non vi sia intenzione, da parte del professionista, di indurre in errore il consumatore.

Il nodo centrale della questione verte, evidentemente, sull’interpretazione del concetto di “pratica commerciale” e se tale possa essere qualificata una condotta posta in essere dal professionista diretta ad un solo consumatore.

Per cogliere al meglio la portata della recente decisione, occorre in limine ricostruire il quadro normativo introdotto dalla Direttiva europea del 2005. Direttiva che, innanzitutto, formalizza il nesso causale tra “un elevato livello di protezione dei consumatori” (art. 5 Dir.) e il corretto funzionamento del mercato interno. E’ evidente, difatti, che in un regime di libera circolazione di servizi e merci, come quello europeo, il legislatore deve promuovere scelte di consumo razionali censurando quelle pratiche commerciali sleali ed ingannevoli “che, inducendo in errore il consumatore”, sono tali da falsarne il comportamento economico (art. 11 Dir.).

Se poi è vero, come spiega la Prof.ssa Amarillide Genovese dell’Università di Bari, che “il concetto di ‘pratica’ è essenzialmente riferito alle modalità dinamiche attraverso le quali il prodotto è portato all’attenzione dei consumatori”, la comunicazione commerciale diventa il veicolo primo con cui l’operatore professionista trasmette la propria ‘immagine’ al consumatore. Un’informazione errata integrerebbe dunque gli estremi di un’azione ingannevole, perché idonea ad incidere sulla percezione del consumatore, alterando la sua capacità di compiere una scelta commerciale consapevole e andando a ledere “indirettamente gli interessi economici dei concorrenti legittimi” (art 6 Dir.).

Questo è stato il filone interpretativo seguito dalla Corte di Giustizia europea, la quale ha affermato che la comunicazione di un’informazione non veritiera, incompleta o errata, da parte del professionista, è pratica ingannevole anche se indirizzata ad un unico consumatore. Nel caso di specie, l’utente, che intendeva recedere dal contratto di abbonamento televisivo in modo da far coincidere il termine dell’abbonamento con l’ultimo giorno di erogazione dei servizi già pagati, a causa di una comunicazione errata sulla durata “residua” del rapporto, aveva determinato in modo errato la data di recesso dal suo abbonamento (ovvero, l’indicazione della data del 10 febbraio 2011 anziché del 10 gennaio 2011) e si era visto addebitarsi dalla società gli ulteriori costi del servizio.

Secondo i giudici di Lussemburgo, a nulla rileva la circostanza che la condotta del professionista coinvolto sia stata tenuta una sola volta e abbia interessato un solo consumatore (la stessa Direttiva non delimita il proprio ambito di applicazione, né in termini di frequenza o di “abitualità” della pratica, né in termini di numero di consumatori): è sufficiente che l’informazione errata sia stata tale da influenzare sfavorevolmente il consumatore, impedendogli effettuare una scelta consapevole e  comportando spese aggiuntive per il medesimo.

La palla passa ora ai giudici nazionali ungheresi e all’interpretazione, uniforme ma pur sempre autonoma, che l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ungherese darà della portata di questa decisione. Portata che potrebbe avere riflessi significativi anche nel quadro giuridico italiano, dove la recente riforma del codice del consumo (2014) aveva già intensificato gli obblighi informativi a carico degli operatori professionali (in particolare artt. 48 e 49 c. cons.).

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